Crisi economica da Coronavirus, le prime vittime sono i giovani

Vincenzo Maddaloni
5 min readMay 26, 2020

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Pochi ne parlano di questa vergogna. In Italia nell’attuale contesto regolamentare, — la pandemia da coronavirus non fa eccezione — a essere licenziati sono innanzitutto i lavoratori con contratti a termine, i lavoratori giovani appunto. Senza gli Eurobond Italia, Francia e Spagna non potranno tutelare i giovani né tantomeno le generazioni che ancora si devono affacciare al mondo del lavoro.

Non è fantapolitica. Ci sono tre miliardi miliardi di persone a casa in attesa della ripresa; si rianimano i flussi finanziari destinati a cambiare il destino di milioni di vite umane e a sfruttare, come sempre, quella che Naomi Klein definiva una “shock economy”. Interi settori sono al palo come il turismo, lo spettacolo, la cultura e tutte quelle attività commerciali che sono considerate secondarie rispetto ai beni di prima necessità.

Ci vuol poco a capire che la disoccupazione avrà effetti micidiali sui giovani condizionandone il futuro. Insomma, il Covid-19, il Coronavirus, non sta solo uccidendo persone, intasando i sistemi sanitari, obbligando tutti a tapparsi in casa, ma si è abbatutto sull’economia globale “con il rischio di una recessione peggiore dell’immaginabile”, come avvertono gli economisti. Certo è che il coronavirus sembra destinato a restare con noi a lungo, nonostante i tentativi senza precedenti di isolamento e contenimento.

Naturalmente c’è chi getta acqua sul fuoco, spiegando che i mercati da tempo hanno previsto scenari funesti e sanno come muoversi, ma non convincono del tutto, perché gli indicatori di segno contrario sono tanti, poichè il morbo è precipitato su un mondo da anni morso della crisi economica. Una stagnazione, peraltro, già considerevolmente assistita, per evitarne degenerazioni, attraverso misure di supporto classiche, come lo è il Quantitative easing (QE) e la riduzione dei tassi di interesse, sia in Europa che negli Stati Uniti. Prioritari sono i problemi di lungo termine come lo è la tutela delle giovani generazioni senza le quali non c’è un futuro credibile.

Il fenomeno in crescita dei Neet è il segnale più evidente del difficile transito dei giovani dalla scuola al lavoro. I Neet — acronimo che sta per «Not in Employment, Education or Training»la definizione, ideata negli anni Novanta in Gran Bretagna nelle indagini sui giovani a rischio di esclusione sociale, è arrivata ad abbracciare la popolazione fino ai 29 o addirittura 34 anni nelle statistiche ufficiali. I Neet sono ad oggi i destinatari (almeno a parole) di specifiche misure di politica sociale in tutta Europa, mirate a incrementarne l’occupabilità e a favorirne l’attivazione.

La pubblicistica ha spesso adoperato toni allarmistici per descriverne la condizione e nemmeno la produzione scientifica è rimasta immune dal fascino di locuzioni evocative come “generazione Neet”, “perduta”, “in panchina”, “sospesa”, tradendo così l’idea che si stesse assistendo all’emergere di una nuova questione generazionale. Il Neet individua, come detto, i giovani che non sono occupati e non sono nemmeno coinvolti in percorsi di istruzione e formazione. Una parte di questi giovani rientra tra i disoccupati perché, non avendo un lavoro, sono attivamente impegnati a cercarlo.

In Italia il problema dell’occupazione giovanile è particolarmente rilevante per due ragioni: innanzitutto perché risale a ben prima della crisi; in secondo luogo perché, nell’attuale contesto regolamentare, — la pandemia da coronavirus non fa eccezione — a essere licenziati sono innanzitutto i lavoratori con contratti a termine, i lavoratori giovani appunto. Infatti, basta attendere la scadenza del contratto, mentre licenziare un lavoratore con contratto a tempo indeterminato è molto più difficile, se non impossibile.

Pertanto se si analizza il problema dell’impoverimento dei giovani in un’ottica di medio-lungo periodo, si evince che i giovani in Italia hanno tassi di disoccupazione più elevati che in altri Paesi europei e che la loro condizione economica, confrontandola con quelle delle altre classi di età, è peggiorata sostanzialmente negli ultimi vent’anni. Pertanto, l’esigenza di un prestito esterno, di risorse finanziarie messe a disposizione a costi non proibitivi, perchè senza gli Eurobond Italia, Francia e Spagna non potranno tutelare i giovani né tantomeno le generazioni che ancora si devono affacciare al mondo del lavoro.

Nell’ultimo rapporto della Commissione europea si stimava per i paesi Ue un costo di circa 153 miliardi di euro (1,2 per cento del Pil) derivante dai Neet (Not in Education, Employment or Training), di quei giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano. La stima include i costi relativi ai sussidi di disoccupazione, ai redditi non percepiti, ai contributi non versati e alle tasse non riscosse. Naturalmente, sarebbero di molto maggiore se si considerassero anche gli effetti sulla salute fisica e mentale, sul tasso di criminalità e sulla coesione sociale. Non bisogna dimenticare che i giovani più colpiti sono quelli con bassi livelli di istruzione e basse competenze, cioè quelli che provengono da famiglie più disagiate. Ragion per cui la disoccupazione giovanile può frenare la mobilità intergenerazionale e fare in modo che il disagio sociale si tramandi da una generazione all’altra.

E’ una realtà ben nota nel Parlamento europeo, non manca di tanto in tanto di richiamarla con quelle frasi ad effetto tipo «L’Europa non può permettersi lo spreco di talenti, l’esclusione sociale o il disimpegno dei giovani. Noi in qualunque caso abbiamo il dovere di sorreggerli». Se così stanno le cose non si giustifica il rifiuto di mettere a disposizione delle risorse finanziarie, senza le quali non si esce dalla crisi causata dalla pandemia da coronavirus.

Gli Eurobond con il bypass di numerosi commentatori ed economisti sono richiesti con insistenza da Italia, Francia e Spagna, respinti con altrettanta insistenza da Olanda e Germania. Naturalmente il confronto si dipana nel chiasso di dichiarazioni, smentite, articoli, sondaggi, fake news, trasmissioni, reportage pilotati dalle grandi multinzionali, da governi terrorizzati, da nazionalisti e da sovranisti scatenati il tutto amplificato ed esasperato dal media mainstream. Finché l’altro ieri mentre tutto lasciava pensare che sugli Eurobond, noti anche come Covidbond, si sarebbe giunti nell’aula dell’Europarlamento a un compromesso i deputati della Lega e Forza Italia vi hanno votato contro. E così si è sciupata un’opportunità, poveri giovani.

Per riprendere il filo del discorso sul futuro che ci attende basta soffermarsi sulle domande che la filosofa americana Judith Butler, ritiene “fondamentali” in questo preciso momento storico.: dopo il coronavirus, sarà lo stesso mondo di prima? Cosa abbiamo perso e quale sarà il nostro futuro dopo questo periodo di “detenzione indefinita”?

L’unica certezza finora è che le superpotenze digitali (da Google a Facebook, da Amazon a Instagram e tutte le società del settore della robotica) stanno registrando tutti i nostri movimenti, le nostre parole, le nostre idee. La pandemia ha agevolato, velocizzato, autorizzato la raccolta di dati che andranno a incidere nelle nostre vite future, in termini economici, sociali e culturali.

Chissà se dopo la “detenzione indefinita” avremo ancora l’ attimo per fermarsi e ripensare che cosa siamo diventati e cosa mai diventeremo.

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Vincenzo Maddaloni

He is a journalist who has travelled a lot, lived a lot, written a lot and hasn’t stopped…